Dopo l’ultima recita dell’Alceste di Gluck al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, abbiamo intervistato il Bass-baritone Gianluca Margheri. La riproponiamo ai nostri lettori per conoscerlo meglio.
Firenze, 3 Aprile 2018
Gianluca Margheri, un giovane Bass-Baritone. Ci racconti un po’ il tuo percorso musicale?
A undici anni mi capitò di vedere il film Amadeus e ne rimasi letteralmente folgorato. Pur non provenendo da una famiglia di musicisti, i miei genitori, mossi dal mio entusiasmo verso la musica di Mozart, mi fecero prendere da subito lezioni di pianoforte. La mia attenzione negli anni si spostò dalla musica strumentale a quella vocale anche grazie al fatto che entrai in una compagnia teatrale durante il periodo del liceo. Fu una delle mie professoresse che sentendomi cantare durante uno spettacolo di prosa mi spinse ad avventurarmi anche verso lo studio del canto e fu proprio lei ad aiutarmi ad entrare nella Scuola di Musica di Fiesole. Poco tempo dopo entrai grazie a una borsa di studio nel conservatorio Boito di Parma per poi proseguire i miei studi musicali infine al Conservatorio Cherubini di Firenze dove mi sono laureato in musica vocale da camera. Sono tanti gli insegnanti che ho incontrato nel mio percorso di formazione e devo dire che quasi ciascuno di loro mi ha consegnato qualcosa da aggiungere al mio bagaglio tecnico ma se devo citare quelli che più hanno contribuito al risultato delle mie attuali capacità i primi nomi che mi vengono in mente sono Carlo Miliciani per aver gettato delle basi solide, Paolo Coni per il fraseggio, l’eleganza e il culto del bel suono e Fernando Cordeiro per il raggiungimento della consapevolezza tecnica del mio strumento.
Dai tuoi studi di Musicologia, Teatro e Musica nasce la tua passione per il canto. Come ti rapporti con i personaggi che devi interpretare?
La prima cosa fondamentale é analizzare lo spartito per vedere se la scrittura, la tessitura e l’estensione rientrano nel range che rispetta la mia vocalità. Poi dalla vicenda e dal libretto cerco di capire chi è il personaggio: da dove viene, che relazioni ha con gli altri personaggi, il perché delle sue azioni, l’evoluzione psicologica che percorre durante la vicenda, cos’è che mi accomuna a lui e cos’è che invece lo differenzia dal mio carattere. Altro aspetto fondamentale quando possibile è conoscere la tradizione ascoltandone gli interpreti “storici” non per imitarli ma per gettare una base sulla quale confrontarsi per personalizzare la propria visione del carattere. In linea di massima non sono mai particolarmente attratto dai personaggi troppo monolitici, preferisco e trovo molto più eccitante e stimolante un soggetto dialettico o che abbia un profilo psicologico più complesso e non troppo lineare; che sia piuttosto combattuto da un dualismo interiore. Ad esempio non riesco a pensare a Don Giovanni soltanto come un personaggio carnefice ma mi piace vederlo nell’ottica di una vittima di se stesso: questo lo rende meno “cattivo” e molto più umano perché si aprono una quantità di infinite sfumature di interpretazione che lo rendono almeno ai miei occhi ancora più accattivante e infinitamente più stimolante e complesso. C’è da dire che qualche anno fa arrivavo in produzione con le idee anche fin troppo chiare su quale fosse la mia visione del personaggio e questo mi creava a volte situazioni di confronto con qualche regista. Adesso sono molto più flessibile con quello che mi viene chiesto e se talvolta una visione registica non rispecchia la mia idea iniziale del personaggio mi adatto volentieri a un’idea altrettanto credibile. In fondo lo vedo come un superamento dei miei limiti visto che amo le sfide.. soprattutto con me stesso.
Dalla vittoria del Concorso Toti Dal Monte nel 2009 è passato quasi un decennio, possiamo dire che tutto nasce da quel momento?
Assolutamente! Avevo già debuttato un qualche titolo in piccoli teatri e in qualche opera studio ma é stato grazie al Toti dal Monte che ho debuttato ne la Vera Costanza di Haydn al Teatro Real di Madrid sotto la bacchetta di Jesus López Cobos e la regia di Elio de Capitani in una produzione che poi ha girato in importanti teatri europei per più di due anni. Ed è proprio in quella occasione che ho conosciuto il mio attuale agente con il quale collaboro da quasi dieci anni.
Hai lavorato spesso con uno dei migliori registi, Pier Luigi Pizzi. Ci racconti la tua esperienza?
La collaborazione con il Maestro nell’ultimo periodo é un autentico regalo che la mia carriera teatrale ha voluto donare alla mia vita. Pier Luigi Pizzi é un autentico colosso del teatro contemporaneo e non ha certo bisogno di presentazioni da parte mia. Quello che posso raccontare semmai è l’entusiasmo, la lucidità, l’innato senso teatrale, la devozione, l’intuito e non ultima l’ironia del Maestro che riempiono contagiosamente il teatro durante le prove. E’ sua abitudine essere presente addirittura a tutte le prove musicali intervenendo e puntualizzando dettagli fondamentali del testo cantato. Niente è mai lasciato al caso e l’attenzione e la cura dei particolari concorrono sempre a raggiungere quell’ideale estetico di eleganza che pochi come lui sono riusciti a realizzare nel teatro d’opera. Che si tratti di una regia tradizionale o di una rielaborazione in chiave moderna il lavoro del Maestro riesce sempre a rinnovarsi distinguendosi sempre in modo mai scontato per la classe e per il rispetto dell’opera e dei canoni estetici di bellezza.
Preferisci il teatro tradizionale o in chiave moderna?
È davvero difficile rispondere a questa domanda. Di getto risponderei moderna perché la trovo più stimolante (non solo per il pubblico ma soprattutto per chi sta sul palco) ma nella mia esperienza ho notato quanto sia fondamentale alternare entrambe le visioni. Per esempio ho debuttato Don Giovanni con un regista tedesco che aveva idee completamente controcorrente e contro la tradizione. Ammetto di non essere stato per niente soddisfatto del risultato. Pochi mesi dopo ho avuto la fortuna di cantare l’opera a Budapest in una produzione tradizionalissima e probabilmente anche abbastanza convenzionale; eppure è stata una esperienza fondamentale per la mia comprensione del personaggio: certi meccanismi sono assimilabili fino in fondo soltanto se si contestualizza il momento storico in cui un’opera è stata scritta; poi da lì si può finanche, perché no, arrivare a rovesciarne il senso ed estrapolarlo in visioni che ribaltano e scompongono l’idea iniziale. Se il regista possiede il cosiddetto “genio” (uno dei primi nomi in questo senso che mi vengono in mente é Robert Carsen) tutto è concesso a patto che sia un lavoro coerente e giustificato e non un inutile divertissement senza senso o una sterile provocazione fine a se stessa
Quali sono le cose che non devono mancare mai in uno spettacolo?
La completa sinergia tra buca e palcoscenico. L’opera é teatro in musica e nessuna delle due componenti dovrebbe sovrastare: le due arti si devono fondere in maniera del tutto unica e servire l’una le potenzialità dell’altra e viceversa. So che sembra un po’ utopico quello che sto affermando ma alla fine è questa la vera forza del teatro lirico che lo rende unico e speciale rispetto a tutte le altre discipline dello spettacolo.
Il rapporto con i tuoi colleghi di palcoscenico?
I primi anni ricordo che era molto più facile stabilire legami di amicizia con i colleghi, vuoi per la giovane età, vuoi per l’entusiasmo generale che naturalmente si trova tra i ragazzi delle produzioni d’opera studio. Negli anni grazie (o forse a causa) all’esperienza é diventato più difficile conoscere persone che finita la produzione restino comunque nella tua vita ma per fortuna ogni tanto capitano davvero dei colleghi speciali con cui si crea un legame, una energia speciale e una intesa elettrizzante sul palco. Lavorare con certi colleghi oltre ad essere anche un insegnamento non diventa mai routine ma ogni giorno una scoperta e un rinnovato divertimento; ingredienti necessari che danno vita ogni sera a uno spettacolo nuovo e sempre vivo.
Qual è il tuo rapporto con i Social?
Ho una pagina su Facebook strettamente legata alla mia vita professionale. Il mio profilo Instagram invece ha un taglio molto più informale anche perché quando l’ho aperto, qualche anno fa, lo usavo soprattutto per condividere con gli amici i miei hobbies e in particolare le attività fisiche e sportive. Ultimamente mi diverto però a postare nelle “stories” spezzoni divertenti delle prove, come gag, addirittura papere o semplicemente delle anteprime degli spettacoli a cui sto lavorando ed è curioso vedere le reazioni dei “non addetti ai lavori” visto che su questo social la gran parte delle persone che mi segue non é melomane. Non voglio certo avere la presunzione di “sensibilizzare” alla lirica ma mi piace far vedere che spesso il mondo dell’opera é meno polveroso e rigido di quanto si pensi.
Il trionfo nell’Alceste al Maggio Fiorentino. Ci racconti di questa esperienza?
Devo ammettere che il successo dell’Alceste fiorentina mi ha lasciato abbastanza stupito. E non mi riferisco alla produzione in generale visto che era vincente già sulla carta essendo affidata a due veri specialisti del settore come Pier Luigi Pizzi e Federico Maria Sardelli. Quando mi è stato proposta e ho ricevuto lo spartito però, il primo istinto è stato quello di cancellare la mia partecipazione perché il ruolo del gran sacerdote non solo si presentava scritto in chiave di tenore ma esibiva oltretutto una schietta tessitura tenorile (o perlomeno bari-tenorile) davvero molto acuta per la mia vocalità. È stato il Maestro Pizzi poi giustamente a convincermi che una vocalità più corposa e scura avrebbe conferito la ieraticità e la solennità giusta al personaggio e in effetti la grande scena del primo atto eseguita in questo modo mi ha colpito per la grande drammaticità e per le molteplici risorse espressive di una scrittura vocale ibrida tra il canto melodico e il declamato. L‘invocazione di Apollo é una pagina straordinariamente emozionante ed é di una potenza intensamente pre-romantica (mi si permetta l’azzardo ma nel tema in minore dei tromboni si avverte l’embrione di qualche eco addirittura wagneriano).
Il tuo repertorio spazia da Händel a Britten con particolare riguardo al barocco e il primo ottocento di Rossini. Hai delle preferenze? Perché?
Mi ritengo molto fortunato perché il basso/baritono raggiunge il suo apice proprio nel periodo musicale che preferisco ossia quello che abbraccia Handel fino ad arrivare a Donizetti. Fino a Verdi non esisteva l’odierna distinzione abbastanza rigida dei registri vocali maschili e sebbene ci fossero delle distinzioni interne i compositori scrivevano per voci abbastanza ibride come ad esempio quella del basso cantabile che corrisponde grosso modo a quella che è oggi la mia vocalità. Si tratta di ruoli generalmente scritti per personaggi nobili contraddistinti da una voce di basso più chiara ed elegante e caratterizzati spesso dall’uso della coloratura e della agilità ma soprattutto della morbidezza del colore che li distingue per il fraseggio. In questo panorama si inscrivono esattamente i miei ruoli mozartiani preferiti come Don Giovanni, il conte delle Nozze di Figaro ma anche lo stesso Conte Asdrubale Rossiniano: Mozart e Rossini in effetti sono senza dubbio i miei compositori prediletti per il loro genio musicale, per il loro modo di trattare la voce per la potenza straordinaria e il per il fascino che sono riusciti a conferire ai loro personaggi. Amo molto Handel (le arie scritte per Montagnana sono autentici gioielli musicali e veri e propri manuali di tecnica del canto di agilità) Bellini (è in progetto il conte Rodolfo della Sonnambula) e Donizetti di cui sono rimasto particolarmente colpito nel Raimondo della Lucia che ho cantato al Petruzzelli di Bari lo scorso Novembre: sebbene non si tratti di un personaggio fondamentalmente interessante dal punto di vista psicologico e teatrale cimentarmi nella vocalità donizettiana mi ha fatto scoprire aspetti della mia voce che per il momento erano rimasti ancora inesplorati e che mi hanno stuzzicato il desiderio di confrontarmi in ruoli ben più stimolanti come ad esempio il Duca Alfonso della Lucrezia Borgia. Se dovessi pensare a qualche ruolo al di fuori del mio periodo storico musicale d’elezione ammetto di essere estremamente attratto dal Mefistofele del Faust di Gounod, dai quattro diavoli dei Contes d’Hoffmann Offenbach e dallo Spirito dell’acqua della Rusalka di Dvorak.
Ci racconti un po’ delle differenze che riscontri nell’interpretare dei personaggi dell’epoca barocca e personaggi dell’ottocento?
Sebbene a me piaccia pensare che la tecnica vocale non differisca in modo sostanziale visto che, pur abbracciando un lungo periodo, si tratta comunque del repertorio di stampo belcantistico, esistono chiaramente differenze di tipo stilistico nel campo specifico dell’estetica vocale e musicale. Se nel repertorio barocco si tende a esprimere degli affetti attraverso degli artifici vocali che riferiscono in maniera ideale la situazione che si cerca di evocare, nell’ottocento (ma spesso già con Mozart a mio avviso) la corrispondenza e l’aderenza della musica al dramma e alla situazione teatrale annullano la sublimazione barocca a favore di una drammaticità e una teatralità molto più concreta. La stessa orchestrazione chiaramente più leggera del repertorio settecentesco permette la possibilità di giocare con effetti e colori della voce più delicati rispetto al repertorio romantico dove grazie all’orchestrazione più densa si favorisce un canto più spiegato e appassionato.
Vista la prestanza fisica, quando si può, i registi ti mettono “a nudo” ,o quasi, ti imbarazza la cosa o ti fa piacere? (come ad es. Alceste a Firenze)
È chiaro che essendo sportivo la cosa mi lusinghi però devo ammettere che non è sempre facile. Sebbene il fatto di non rientrare nel vecchio cliché del cantante d’opera grasso che sta immobile sul proscenio cantando verso il direttore entusiasmi una fetta di pubblico che apprezza una recitazione più naturale, una immagine che si avvicina molto di più agli stereotipi moderni televisivi e cinematografici crea una serie di pregiudizi legati a una mentalità a mio avviso abbastanza limitata per non dire sciocca e ridicola perché addirittura c’è chi pensa che stare nudo in scena possa essere una mia scelta ignorando che é chiaramente una decisione del regista e del costumista. Mi è capitato di recente di lavorare con un direttore d’orchestra con cui non avevo mai lavorato che alla fine della prima prova musicale mi guarda soddisfatto e mi fa i complimenti dicendomi “ah ma allora sai anche cantare”. Chiaramente era una battuta e ci siamo messi tutti a ridere ma in fondo la cosa mi ha fatto certamente riflettere perché io ritengo comunque il lato estetico e fisico una condizione assolutamente secondaria e accessoria al canto: niente più che un mero elemento aggiunto. E’ per questa ragione che oggi valuto sempre con estrema attenzione le richieste che provengono dai registi di stare sul palco senza camicia se non addirittura in slip. Ogni volta che percepisco il desiderio gratuito di spogliarmi senza una reale ragione drammaturgica ma solo per un ammiccamento ruffiano verso il pubblico mi rifiuto categoricamente di farlo. Poi è chiaro che se a chiedertelo è Pier Luigi Pizzi non c’è nessuna ragione per opporsi poiché nella sua visione teatrale niente è mai volgare o gratuito ma sempre finalizzato a un risultato estetico elegante e necessario: vuoi che si tratti di stare in costume da bagno tuffandosi in piscina come il Conte Asdrubale nella Pietra del Paragone (come per altro facevano anche tutti gli altri componenti del cast) o che si tratti del Gran Sacerdote di Apollo in Alceste valorizzato da un costume neoclassico volto – anche grazie all’uso del trucco – a riecheggiare le pose delle statue greche non ultima la riproduzione stessa della statua dell’Apollo di Francavilla presente in scena. Forse la volta in cui provai un leggero imbarazzo fu giusto a Budapest nel Fairy Queen due anni fa. Uno spettacolo molto forte ma anche molto stimolante e divertente dove nella prima scena la richiesta del regista era quella di simulare una scena di sesso a letto che inizialmente doveva essere in penombra e con uno slip nero… alla fine la scena venne illuminata a giorno, lo slip diventò bianco e l’opera venne ripresa dalla televisione di stato ungherese con primi piani in alta definizione.
Progetti futuri?
Nei prossimi mesi mi aspetta un progetto assolutamente stimolante: il protagonista dell’opera Minotauro di Silvia Colasanti. Una prima assoluta per l’inaugurazione del Festival dei Due Mondi di Spoleto dove la figura mitologica del Minotauro viene presentata in un adattamento del racconto di Friedrich Dürrenmatt in cui protagonista è visto nella totale incoscienza della propria animalità. Ecco che allora non appare più un mostro come lo disegna il mito ma piuttosto come un essere che desta compassione e tenerezza dipinto nella sua solitudine e rinchiuso in un labirinto di infiniti specchi e infinite illusioni. Seguiranno un nuovo progetto discografico a fianco di Marina Rebeka, Apollo e Dafne di Handel a Londra, Guglielmo in Così fan tutte nel circuito marchigiano nella splendida produzione del maestro Pizzi, il conte delle Nozze di Figaro, Rodelinda di Handel al Liceu di Barcellona, riprese del Fairy Queen e Don Giovanni a Budapest.
Grazie per il tempo che ci ha dedicato, ti auguriamo buon lavoro!
di Salvatore Margarone
Photo gianlucamargheri.com